domenica 15 gennaio 2017





La dipendenza affettiva. Amare tanto chi non ci ama…perché?

La dipendenza affettiva è una vera e propria dipendenza.
In tal caso però non ci sono droghe, ma persone ritenute indispensabili proprio come le droghe per un tossicodipendente,
Per essere nella loro orbita il dipendente fa di tutto, è disposto a fare cose spiacevoli e degradanti, accettando situazioni per chiunque intollerabili. Proprio come un tossicodipendente che per la sua dose è disposto a tutto, a differenza che in ballo stavolta c’è una persona “amata”.
Scrivo amata tra virgolette perché alla base l’amore si copre di paure, come la paura di restare soli, la paura di non essere degni di amore e di considerazione, la paura di essere ignorati, o abbandonati, o annichiliti. Dunque non è solo amore per l’altro ma una situazione in cui la paura regna sovrana.
Offrire amore nella speranza di essere ricambiati diventa la costante della vita, il centro e il desiderio importante di trovare un amato/a che protegga da tali paure.
Inoltre nella dipendenza affettiva non c’è reciprocità, il dipendente è un “donatore a senso unico” di amore, e per questo colui che sta male poiché non vede ricambiato il proprio amore.
L’amore non diventa condizione di benessere ma il fulcro delle ossessioni e del malessere.
Inoltre il dipendente non è capace di interrompere la relazione e q
uesta è una delle sue più grosse difficoltà.
Una prima caratteristica della dipendenza affettiva poi è la difficoltà a riconoscere i propri bisogni e la tendenza a subordinarli ai bisogni dell’altro.
L’amare l’altro diventa spesso una forma di sofferenza; il benessere emotivo, a volte anche la salute e la sicurezza, vengono messi a repentaglio per il benessere dell’altro.
Troppa energia vitale è impiegata nell'amare o nel ricevere amore e approvazione, poca ne rimane per attività autodeterminate, rivolte al raggiungimento di obiettivi precisi.
Le persone con difficoltà affettiva non riescono a prendersi cura di sé, a creare degli spazi per la propria crescita personale perché sempre prese, in quel momento, da qualche problema del partner che richiede la loro attenzione e la loro energia vitale.
Un’altra caratteristica che accomuna tutti i rapporti dei dipendenti da amore è la paura di cambiare. Pieni di timore per ogni cambiamento, essi impediscono lo sviluppo delle capacità individuali e soffocano ogni desiderio e ogni interesse.
Chi soffre di dipendenza affettiva è ossessionato da bisogni irrealizzabili e da aspettative non realistiche.
Queste persone ritengono che occupandosi sempre dell'altro la loro relazione diventi stabile e duratura.
Ma, immancabilmente, le situazioni di delusione e risentimento che si possono verificare li precipitano nella paura che il rapporto non possa essere stabile e duraturo, ed il circolo vizioso riparte, a volte addirittura "amplificato". Non ci si rende conto che l’amore richiede onestà e integrità personale perché l’amore è un accrescimento reciproco, uno scambio reciproco tra persone che si amano.
Spesso, anche se non sempre e necessariamente, la persona amata è irraggiungibile per colui o colei che ne dipende.

Anzi, in questi casi si può affermare che la dipendenza affettiva si fonda sul rifiuto, anzi, se non ci fosse, paradossalmente, il presunto amore non durerebbe. Infatti, la dipendenza si alimenta dal rifiuto, dalla negazione di sè, dal dolore implicito nelle difficoltà e cresce in proporzione inversa alla loro risolvibilità.
Quello che incatena nella dipendenza affettiva e' l’ingiustificata, assurda, sconsiderata presunzione di farcela.
La presunzione di riuscire prima o poi a farsi amare da chi proprio non vuole saperne di ricambiare o di ricambiare nel modo in cui si pretende.
Chi soffre di dipendenza affettiva può essere stato vittima di abusi e maltrattamenti o di essere cresciuto in famiglie disfunzionali in cui i figli non hanno imparato a mettersi in contatto con i propri sentimenti  e di mettersi in relazione con gli altri.
Famiglie in cui i bisogni emotivi non vengono riconosciuti. Il bisogno di affetto e amore vengono trascurati, ma cosa più invalidante, vengono ignorate le percezioni e i sentimenti dell’individuo fin dall'infanzia, che di conseguenza tende ad adattare le sue percezioni a quello che gli viene detto dalle sue figure di riferimento. Gli esiti sono la perdita della fiducia in sé stessi e nelle proprie percezioni, che da adulti comporta l’incapacità a discernere tra le situazioni e/o le persone che possono arrecare danno.
Può esserci stata violenza tra i genitori e/o tra genitori e figli;
un comportamento sessuale scorretto da parte di un genitore Presenza costante di litigi e tensioni.
Genitori con comportamenti compulsivi, bisogno irresistibile di continuare a mangiare, lavorare, pulire, giocare d’azzardo, spendere, ecc. Questi comportamenti coatti sono come droghe, processi patologici progressivi; tra i molti effetti dannosi, distruggono e impediscono contatti sinceri e intimità nella famiglia.
Genitori che hanno atteggiamenti o valori conflittuali o manifestano comportamenti contraddittori l’uno in competizione con l’altra per ottenere la complicità dei bambini.
Estrema severità in fatto di denaro, religione, lavoro, uso del tempo, manifestazioni di affetto, sesso, politica ecc.. Una qualsiasi di queste ossessioni può precludere i contatti e l’intimità, perché non si dà importanza ai rapporti, ma all'obbedienza alle regole.
Inoltre cercando sempre partner lontani, anaffettivi, il dipendente cerca nella ripetizione di una dinamica familiare infantile di far in modo che il genitore punitivo o distante cambi e diventi finalmente il genitore che ha sempre sognato.

Peccato però, che finché non si elabora il trauma la trappola rimane e si resta impigliati in una ragnatela di desideri che mai potranno realizzarsi.

venerdì 7 giugno 2013

IL TRAUMA.

Il trauma è conseguenza di un evento doloroso, improvviso, destrutturante che interrompe il flusso della nostra esistenza e ci mette in contatto con il dolore, con la morte, con la violenza.
Traumi tipici sono l'abuso, la violenza sessuale, il bullismo, la violenza domestica, il lutto, la malattia, gli incidenti, la violenza verbale, fisica, o la sua minaccia, altre violazioni o perdite di sicurezze personali.
Anche l’assistere a questi fatti può costituire un evento traumatico (si parla in questo caso di "vittime secondarie", o anche di vittime "terziarie" nel caso dei soccorritori che assistono le vittime primarie).
Ci sono poi i "traumi cumulativi", definiti come tali originariamente dallo psicoanalista Masud Khan: lutti precoci, relazioni dolorose nell'infanzia, malattie più o meno invalidanti dei genitori o proprie, fallimenti professionali, delusioni amorose, ecc
 Secondo Khan, il trauma cumulativo ha le sue origini nel periodo di sviluppo in cui il bambino necessita della madre e la usa come proprio schermo protettivo. Qualsiasi disturbo nella delicata interazione dei fattori individuali e ambientali durante questo periodo può diventare traumatico.
Tali tipi di traumi sono attualmente definiti, nella nosografia, come "traumi di tipo 2" (riservando la definizione di "trauma di tipo 1" agli eventi traumatici "singoli": incidenti unici, eventi critici isolati, forti, ecc.)
Il trauma se violento può dar origine al Disturbo Post Traumatico da Stress che è l'insieme delle forti sofferenze psicologiche che conseguono ad un evento traumatico, catastrofico o violento. I sintomi di tale disturbo sono:
Flashback: un vissuto intrusivo dell'evento che si propone alla coscienza, "ripetendo" il ricordo dell'evento.
Numbing: uno stato di coscienza simile allo stordimento ed alla confusione.
Evitamento: la tendenza ad evitare tutto ciò che ricordi in qualche modo, o che sia riconducibile, all'esperienza traumatica (anche indirettamente o solo simbolicamente).
Incubi: che possono far rivivere l'esperienza traumatica durante il sonno, in maniera molto vivida.
Hyperarousal: caratterizzato da insonnia, irritabilità, ansia, aggressività e tensione generalizzate.
In alcuni casi, la persona colpita cerca "sollievo" (spesso peggiorando la situazione) con abusi di:
Il PTSD è il risultato di una scarsa elaborazione del trauma, che rimane vivido e presente nella memoria a causa anche delle connotazioni negative che una persona si attribuisce quando ripensa al trauma.
Solitamente si associa all'evento traumatico non elaborato una serie di pensieri disfunzionali  del tipo: "sono impotente" , "non ho il controllo delle situazioni", "è stata colpa mia", "sono uno stupido", "non sono degno di essere amato", "non valgo", "sono una cattiva persona" ...ecc 
La stranezza del caso è che solitamente tali attribuzioni vengono date verso eventi di cui non si poteva essere responsabili, o averne il controllo totale (tipo incidenti, terremoti, violenze sessuali, litigi fra altre persone...). Queste "cognizioni negative" vanno però ad influenzare la stima che si ha di sé, la fiducia nelle relazioni e la vita intera poiché molti eventi vengono filtrate da loro.
Ad esempio dopo un incidente ci si può ritrovare ad essere troppo apprensivi con i propri figli e verso sé stessi evitando qualsiasi pericolo e angosciandosi per un nonnulla poiché scatta subito lo schema di "io sono impotente". Oppure dopo aver sperimentato un lutto o un abbandono, verranno messe in atto misure disperate per evitare un abbandono reale od immaginario (ciò è tipico delle personalità borderline, infatti il Disturbo Borderline di Personalità è da molti inteso anche come il risultato di abbandoni e piccoli o grandi traumi avvenuti durante l'infanzia) .
Tali angosce derivate da un evento traumatico oltre che influenzare la propria vita, vengono poi anche trasmesse da generazione in generazione, generando così una "trasmissione transgenerazionale" del trauma. Da ciò ne consegue che il trauma se non rielaborato, può essere trasmesso generando problemi che possono coinvolgere diverse generazioni.
Qui nasce anche la necessità di intervenire sul trauma: sia per non sperimentare più sensazioni angosciose, di allerta e cognizioni negative su di sé, sia per evitare un ulteriore "trasmissione transgenerazionale" del trauma stesso. La rielaborazione del trauma permette di integrare l'evento in una prospettiva più razionale, più funzionale, sostituendo i pensieri negativi con attribuzioni positive su di sé (tipo: sono stata coraggiosa, posso farcela, sono una brava persona, posso essere amato...ecc)
Dopo il superamento del trauma, percorso a volte anche doloroso, i cambiamenti possono essere molteplici e si può sperimentare una sensazione di benessere che può migliorare la relazione che abbiamo con noi e con gli altri.


mercoledì 14 novembre 2012

STORIELLA ZEN...

 Avaro nell'insegnare.


Un giovane medico di Tokyo, un certo Kusuda,incontrò un compagno di università che aveva studiatolo Zen. Il giovane dottore gli domandò che cosa fosselo Zen.«Io non posso dirti che cosa sia,» rispose l'amico, «mauna cosa è certa. Se capisci lo Zen, non hai più pauradi morire».«Questo è molto bello» disse Kusuda. «Voglio provarci.Dove posso trovare un insegnante?».
«Va' dal maestro Nan-in» gli disse l'amico.
Così Kusuda andò a trovare Nan-in. E per appurare se
l'insegnante avesse a sua volta paura di morire, portò
con sé un pugnale lungo una ventina di centimetri.
Quando Nan-in vide Kusuda esclamò: «Salve, amico.
Come stai? Non ci vediamo da un pezzo!».
Quest'accoglienza sconcertò Kusuda che rispose: «Noi
non ci siamo mai visti».
«E' vero» rispose Nan-in. «Ti ho scambiato per un altro
medico che viene a studiare qui da me».
Dato l'esordio, Kusuda perse l'occasione di mettere alla
prova il maestro, e così, con riluttanza, gli domandò se
poteva prendere lezioni di Zen.
Nan-in disse: «Lo Zen non è una cosa difficile. Se sei
medico, tratta i tuoi pazienti con bontà. Lo Zen è
questo».
Kusuda andò tre volte da Nan-in. Ogni volta Na-in gli
disse la stessa cosa. «Un medico non dovrebbe perdere
tempo qui da me. Va' a casa tua e prenditi cura dei
tuoi pazienti». Ma Kusuda ancora non capiva come
questo insegnamento potesse abolire la paura della
morte. E la quarta volta proruppe: «Il mio amico mi
aveva detto che quando uno impara lo Zen non ha più
paura di morire. Ogni volta che vengo qui tu mi dici di
prendermi cura dei miei pazienti. Questo lo so. Se il
tuo cosiddetto Zen si riduce a questo, è inutile che
continui a venire da te».
Nan-in sorrise e batté la mano sulla spalla del dottore.
«Sono stato troppo rigido con te. Ora ti darò un koan»
(I koan erano problemi. o piuttosto «sfide interiori»
che i maestri proponevano ai discepoli per metterli alla
prova. "La porta senza porta", ovvero "Mu-mon-kan",
è un testo classico Zen, attribuito al maestro cinese
Ekai, detto anche Mu-mon, che visse dal 1183 al 1260).
E propose a Kusuda di studiarsi il Mu di Joshu, che è il
primo problema illuminante nel libro detto "La porta
senza porta".
Kusuda meditò per due anni su questo problema del
Mu (Niente). Infine pensò di avere raggiunto la
certezza della mente. Ma l'insegnante commentò: «Non
ci sei ancora».
Kusuda continuò la sua meditazione per un altro anno
e mezzo. La sua mente diventò serena. I problemi si
risolsero. «Niente» divenne la verità. Egli curava bene i
pazienti e, senza nemmeno saperlo, era libero da ogni
preoccupazione sulla vita e sulla morte.
Allora, quando tornò da Nan-in, il suo vecchio
insegnante si limitò a sorridere.

lunedì 11 giugno 2012

Le distorsioni cognitive




Le distorsioni cognitive ... 




Cosa si sta pensando, determina in gran parte le nostre reazioni emotive e comportamentali in una certa situazione. 
L’uso di particolari modi di valutare la realtà e di ragionare, detti “distorsioni cognitive”, contribuisce a creare pensieri disfunzionali e quindi ad alimentare stati d’animo negativi.
Tutti noi commettiamo errori di ragionamento, perché quando dobbiamo prendere una decisione o attribuire la causa a qualche evento, la conclusione a cui arriviamo non deriva da una dettagliata analisi logica di tutti gli elementi e le variabili che possono avere influenzato la situazione. 
La nostra mente funziona su un principio economico per cui cerca delle scorciatoie, si basa solo su alcuni elementi, salta alle conclusioni, invece di usare una logica ferrea, in ogni momento, in ogni situazione.
Gli errori di ragionamento possono causare problemi, quando vengono usati sistematicamente, con intensità, allora producono pensieri costanti disfunzionali, cioè pensieri poco realistici e determinano sofferenza emotiva. 
Le distorsioni cognitive possono essere riconosciute nel nostro flusso di pensiero, il dialogo interiore, e modificate allo scopo di riformulare pensieri più realistici, adattivi e funzionali al nostro benessere.
Proviamo insieme a vedere quali sono i passi fondamentali da svolgere:

1° Passo: Ascoltare il proprio monologo interno.
È importante che si ponga attenzione a ciò che io mi dico e non solo a ciò che dice l'altro. Ci si può aiutare tenendo un diario dei propri pensieri.
Cominciando ad osservare i pensieri e le emozioni che determinano le reazioni, si può cominciare a capire che alla base di un nostro comportamento non c'è solo una risposta al comportamento dell'altro ma anche un'idea iniziale preconcetta.

2° passo: identificare le proprie distorsioni cognitive
Una volta che si comincia a osservare il proprio dialogo interno è possibile cominciare ad indagare sulle proprie distorsioni cognitive. Le distorsioni cognitive più comuni che hanno maggiore impatto sulle relazioni interpersonali sono:
Il pensiero dicotomico (o tutto o nulla): una situazione o è un successo oppure è un fallimento, non esistono gradi intermedi, se una situazione non è perfetta è un completo fallimento (ad esempio, "Se non ho almeno 28 a tutti gli esami abbandono l'università?").
L’ipergeneralizzazione, il fare, come si dice, "di tutt’erba un fascio", un evento negativo non è semplicemente qualcosa che in quella circostanza è andata male, ma è la prova che la vita è fatta solo di eventi negativi. 
L’astrazione selettiva (o filtro mentale) , cioè il puntare l’attenzione su di un solo aspetto (negativo) di una situazione ignorando tutto il resto (positivo) (ad esempio, il professore loda l’elaborato e suggerisce alcune modifiche marginali e questo viene vissuto come un giudizio negativo su tutto il lavoro senza tener conto dei giudizi positivi).
Il minimizzare i lati positivi: le cose positive sono in contrasto con la visione negativa e vengono perciò minimizzate, attribuite al caso o all’educazione, alla gentilezza degli altri ("era una cosa secondaria ... per una volta ho avuto fortuna ... lo dicono per educazione, perché certe cose non si dicono in faccia ...").
L’inferenza arbitraria, il saltare, cioè, alle conclusioni partendo da premesse che in realtà non giustificano tali conclusioni. Ad esempio, se il soggetto vede un conoscente che attraversa la strada prima di incrociarlo, penserà "Non ha voluto incontrarmi". In questo caso è in atto una seconda distorsione cognitiva:
la lettura del pensiero, ossia, essere convinti di sapere cosa pensa l'altra persona, senza prove che ne confermino questa convinzione.
La catastrofizzazione: il giudicare gli eventi negativi come intollerabili catastrofi, una brutta figura viene vissuta come una cosa terribile, un’umiliazione intollerabile.
Il ragionamento emotivo, il considerare, cioè, le reazioni emotive come prova di qualcosa ("Mi sento spaventato, questo vuol dire che la situazione è veramente pericolosa").
La doverizzazione: il giudicare se stessi e gli altri sulla base di ciò che uno "dovrebbe" comportarsi o sentire ("Se è un amico, deve stimarmi, perché bisogna stimare gli amici"). (Devo vivere una vita serena e positiva).
L’etichettamento: il definire le cose con un’etichetta globale invece che facendo riferimento a cose specifiche, come ritenersi "un fallimento" piuttosto che ammettere di essere incapaci di fare una cosa specifica.
La personalizzazione, il ritenere se stessi responsabili di qualcosa di cui, in realtà, sono soprattutto responsabili altre persone o altri fattori.

3° Passo: Considerare le relazioni tra pensieri e comportamenti
Osservando quotidianamente il proprio dialogo interno, evidenziando le distorsioni cognitive e ile emozioni che ci caratterizzano possiamo cominciare a chiederci: "cosa mi dico quando mi sento in questo modo?", "quando agisco in questo modo?"

4° Passo: Sfidare e cambiare le distorsioni cognitive
Una volta riconosciute le distorsioni è utile esercitarsi per modificarle. Anche se è un lavoro difficile e non si è supportati da uno specialista, si può ricorrere ad un elenco di domande per metter indiscussione le distorsioni cognitive.
Vediamole:
Quale evidenza è a favore della mia interpretazione?
Quale evidenza potrebbe essere contraria alla mia interpretazione?
C'è una spiegazione alternativa per il comportamento del mio partner?
Ci sono altri motivi o sensazioni che possono averlo spinto ad agire in quel modo?
Quello che penso è sempre vero o ci sono eccezioni?
Se sto generalizzando o etichettando, posso descrivere la situazione in modo più accurato e specifico?
Posso riformulare una parte del mio dialogo interno tenendo conto delle informazioni acquisite attraverso queste riflessioni?

giovedì 26 aprile 2012

L’ACCETTAZIONE: psicologia & meditazione

                   
Accettare la sofferenza è la via della guarigione.
Affermazione paradossale, se io soffro ciò che desidero è guarire!

Bene, se spendiamo troppe energie per evitare di soffrire, la nostra sofferenza non farà che aumentare a  dismisura.

Se vogliamo evitare una pozzanghera, cerchiamo di alzare un piede e saltare
Non è lo stesso per le sabbie mobili. Alzare una gamba per uscire dalle sabbie mobili non fa altro che concentrare il peso del nostro corpo solo da un lato e il vuoto creato dalla gamba ci farà risucchiare ancora più giù; l’ideale non è dimenarsi ma star calmi.
E’ accertato che tentare di liberarsi dalle sabbie mobili dimenandosi e agitandosi, tipo sollevando un piede, non fa altro che far sprofondare la persona ancora più giù.
La vera salvezza si può raggiungere sopportando di stare con il fango e muovendosi tranquillamente.

E’ un po’ come chi non accetta il proprio corpo e cerca con lifting di modificarlo, sottoponendosi a stressanti operazioni chirurgiche. Dopo il lifting si sta meglio ma dopo un po’ di tempo ecco ricomparire un altro difetto da correggere. L’insoddisfazione continua e si cerca di eliminarla correggendo ossessivamente difetti che in realtà fanno parte del nostro modo di essere che ci rendono diversi dagli altri.

La soluzione? Mettersi in una posizione meditativa in cui si apre la possibilità di accettare l’ansia, il dolore, la depressione, le ossessioni, le paure. Accettando il negativo questo potrà diminuire gradualmente d’importanza. Se invece voglio combatterlo a tutti i costi, non farò altro che concentrarmi sulle mie paure, sulle mie idee irrazionali, sulle mie debolezze cercando disperatamente di eliminarle. 
Non  vivrò la mia vita perché concentrato sui miei conflitti, diventerò come loro mi vogliono e vivrò in uno stato di perenne insoddisfazione.

Se mi sforzo di non pensare a una cosa sicuramente la penserò più del dovuto.
La nostra mente non funziona come l’esperienza esterna. Se non ci piace qualcosa di esterno e concreto  l’atteggiamento più sano è quello di cercare di allontanarlo e di sbarazzarcene. Se invece non riusciamo a tollerare un nostro pensiero cercare di annullarlo non farà altro che ingigantirlo. Per i nostri pensieri non vale la regola ”non mi piace allora cerco di eliminarlo” perché i soli tentativi di “cercare di non pensarci” o “devo tentare di non pensare più a queste assurdità” non faranno altro che incrementare i pensieri relativi a quel/quei pensieri di cui vogliamo sbarazzarci.

Dunque l’unica salvezza è l’accettazione.


Mettersi nella posizione meditativa di chi accetta ciò che viene, sia il bello che il brutto.
Solo dopo aver accettato il brutto e la negatività, ne diminuiremo la forza, e solo dopo potremo iniziare a vivere la vita e a migliorare davvero.

lunedì 6 febbraio 2012

LA PROIEZIONE

Quest'articolo è dedicato al concetto della proiezione in psicologia e psicoanalisi. Che significa proiettare? Non stiamo parlando di un film ovviamente, ma di qualcosa che è nella nostra mente. Il concetto di proiezione si avvicina al famoso modo di dire: "ti stai facendo solo tanti film" nel senso: "ti stai costruendo solo mille fantasie sulla questione". 
Proiettare significa infatti attribuire ad un altro qualcosa che invece fa parte di noi e che non tolleriamo. Ad esempio sono una persona falsa e non mi piace questo mio aspetto e credo sempre che siano gli altri ad essere sempre falsi, sono litigiosa ma penso che siano gli altri a voler attacar bottone e via dicendo.
Una piccola dose di proiezione è normale, ma quando la nostra vita è pervasa da persone tutte uguali (ad esempio persone stupide, litigiose, strane, cattive) c'è qualcosa che non va. Nel patologico si può arrivare alla famosa paranoia ma nella normalità dobbiamo far attenzione a non esagerare perchè:

Proiettare le nostre Ombre...
1) se proietto continuamente sull'altro miei difetti non mi metto mai in discussione, non cresco, rimango sulle mie posizioni sbagliate;
2) la mia vita può diventare davvero faticosa da gestire emotivamente;
3) io non sono giudice del mondo, e chi giudica sempre finisce nella solitudine dei suoi giudizi;

Inutile dire che è difficile capire il confine tra ciò che fa parte di me è ciò che è dell'altro, spesso si risolve con una psicoterapia. Solitamente il paziente non mette in discussioni le proprie proiezioni, ma lamenta difficoltà interpersonali. A poco a poco vengono scardinati altri aspetti su cui agire facendogli mettere in discussione ciò che fa parte di sè.

giovedì 22 dicembre 2011

Se non pensiamo al problema lo risolviamo...


Come risolvere i problemi? Non pensandoci!

Sembra un luogo comune, ma è proprio così. I problemi della vita non hanno soluzione.
Abbiamo infinite scelte ed alternative, nulla è un problema ma solo un evento al quale attribuiamo un significato positivo o negativo.

Pensiamo alla perdita del lavoro: un evento negativo ma anche l’apertura a nuove possibilità di realizzazione. Oppure al fidanzato che ci ha lasciato: forse la vita che ci aspetterà dopo l’elaborazione della perdita non è detto sia peggiore. Addirittura la perdita di una persona cara può essere un evento di crescita e di rafforzamento della propria personalità. In effetti gli eventi sono per noi negativi quando ci danno dolore,  ma senza dolore non c’è nascita e crescita. L’esperienza dolorosa può davvero completare una persona, renderla meno superficiale e più introspettiva.

Se pensiamo a come risolvere un problema della nostra vita cercando soluzioni corriamo il rischio di amplificarli e di creare dei labirinti dai quali non riusciamo ad uscirne. Non sopportiamo un nostro collega e ci arrovelliamo su come migliorare la relazione, oppure vogliamo risolvere il problema di non litigare con il nostro partner o di farci ascoltare dai nostri figli.
Se applichiamo meccanicamente  strategie di risoluzione potremmo sembrare finti ed artefatti oppure imprevedibili. La strategia è utile solo se ci aiuta a cambiare davvero, a metterci poi in gioco, altrimenti non ha senso. La soluzione è nel mettersi l’animo in pace ed aspettare…aspettare il momento giusto in cui tutto ci apparirà in maniera diversa, agiremo come non abbiamo mai agito ed avremmo finalmente capito. 

L’importante è non pensarci e vivere il momento. 
L’atto creativo avviene  quando abbiamo la mente sgombra e la percezione amplificata e attenta all’hic et nunc (al qui ed ora).

Le cose intorno a noi difficilmente cambiano siamo noi a cambiare lo sguardo su di loro.